di Marzia Baldari
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Vi ricordate di Nunzia De Girolamo? Probabilmente no, perché il suo nome è caduto nel dimenticatoio come quello di chi, per un breve periodo, è spinto in un vorticoso linciaggio social fatto di insulti online, titoli di giornali accusatori o breaking news per aver scritto un tweet offensivo, registrato un video razzista o per aver commesso un qualsiasi errore (assolutamente umano) per cui noi utenti, giudici sapienti, ci indigniamo e che dobbiamo assolutamente far pagare al diretto interessat*. Con commenti feroci e carichi di disprezzo, e senza concedere al linciato o alla linciata possibilità di replica, il diritto di difesa, o meglio ancora, la presunzione d’innocenza.
E quindi ci basta una sola prova per emettere la nostra sentenza
di colpevolezza e di riversare tutta la rabbia per quel nome che ha fatto o detto qualcosa che non doveva fare o dire. Nomi che dopo la gogna mediatica finiscono poi per essere dimenticati.
Dicevamo, De Girolamo.
Ecco, Nunzia è una di questi nomi, uno di questi capri espiatori. Ma da quando siamo diventati così stronzi sui social network? E da quando abbiamo fatto tornare la gogna? Nel Medioevo era destinata ai condannati per reati minori: bestemmie, piccoli furti o prostituzione. Il malcapitato veniva immobilizzato ad una tavola di legno con un cartello in cui era scritto il reato commesso e trascinato nelle piazze più affollate per essere esposto a quanti più occhi possibili ed essere deriso e insultato.
Ora, sostituite la piazza ai social media
(che altro non sono che agorà virtuali), le persone con gli utenti, e gli insulti con i commenti. A più di trecento anni forse non siamo così cambiati. Il contesto sì, ma non il nostro atteggiamento accusatorio. Linciamo, e se poi ci siamo sbagliati, pazienza. Niente compassione, al massimo colpi di grazia. Più il linciato è a terra e più l’obiettivo del linciaggio si allarga, quasi sempre al posto di lavoro per cui lavora il linciato. Non ci basta umiliarlo, vogliamo togliergli tutto. Il diritto al lavoro e a vivere serenamente. Eppure il diritto al lavoro è quella cosa che è scritta nel primo articolo della nostra Costituzione. E per cui i nostri nonni hanno dato la vita.
De Girolamo.
Fino a qualche tempo fa era un’importante esponente politico del nostro paese: ministra per le politiche agricole del governo Letta. Poi si dimise perché coinvolta in un’indagine giudiziaria su presunte irregolarità per la gestione della Asl di Benevento e che ha concluso la sua carriera politica dopo il conseguente linciaggio social. Nove anni dopo è arrivata la sentenza definitiva: assolta in primo grado e anche in appello. Notizia che a differenza del trambusto mediatico iniziale è passata completamente inosservata. Il fatto non sussiste.
Per il linciaggio mediatico nel 2014 Nunzia si è dovuta dimettere. Ha perso il suo lavoro e sbrandellato legami di amicizia a causa di prime pagine con titoli roboanti, commenti e hashtag accusatori. Per l’assoluzione, il nulla. Tutto è caduto nel dimenticatoio.
Allora fermiamoci prima di condividere
di commentare con indignazione sotto un post e approfondiamo la notizia. Verifichiamo più fonti e facciamoci una nostra idea senza emettere una sentenza. Quella spetta al Tribunale. Ci renderemo conto, una volta fatte le dovute verifiche, che quel nome aveva una famiglia, degli amori e delle debolezze. E forse non era poi così male. La gogna in fondo è stata abolita nell’Ottocento proprio perché l’umiliazione spegne nella vittima il desiderio di redimersi e preclude la speranza che possa tornare alla via dell’onorabilità.
Nessuno di noi è perfetto e immutabile. Chi non ha commesso degli errori anche in passato? Sforziamoci di passare dalla cancel culture alla compassion culture, da un’atmosfera soffocante a quella compassionevole. Concediamoci di essere meno superficiali.
Non rinunciamo al gusto della complessità.
